domenica 8 marzo 2009

Riti e giochi nel mondo antico

Margarete Riemschneider
Riti e giochi nel mondo antico
ConvivioNardini, Firenze 1991, pagg. 124.

Luciano di Samosata, satirico sino-greco del II secolo, riporta in uno dei suoi famosi Dialoghi la conversazione tra un sacerdote e l’arcaico dio Kronos (il romano Saturno), spodestato da Zeus con un atto che, alla fine della violenta lotta per il potere divino, pose fine all’età dell’oro. A Kronos è però permesso di tornare sul trono per sette giorni all’anno, durante i quali l’occupazione principale degli uomini e degli dei saranno il gioco, la festa, le libagioni, in un generale sovvertimento dell’ordine che comprende perfino l’annullamento di ogni differenza tra padroni e schiavi. Ma questi Saturnali, progenitori del nostro carnevale, non erano solo un rito di rovesciamento sociale; nascondevano qualcosa di ancora più profondo: il gioco e l’azzardo intesi come metafora sia cosmologica che divinatoria.
In questa opera postuma che ha appunto come titolo originale Saturnalia, e alcuni estratti della quale erano stati pubblicati anni addietro in Italia da Elémire Zolla nella sua rivista~ Conoscenza religiosa », la studiosa tedesco-orientale Margarete Riemschneider si rifà al dialogo di Luciano per iniziare il suo discorso sul gioco, al fine di mostrare come nell’antichità vigessero usanze solo in parte ripetute con la chiara consapevolezza dell’origine: già in Luciano infatti, autore tardo, non c’è più quella piena comprensione dei collegamenti mitici che l’autrice, padrona del metodo comparativo e ricca di conoscenze sulle culture greco-romana, ittita e germanica, dispiega con ricchezza di particolari e piena godibilità espositiva.
Nel dialogo di Luciano compare dunque un accenno esplicito al gioco da tavola, la cui suddivisione in comparii chiamati “cielo” e “terra”, come più tardi i riquadri bianchi e neri, allude alla lotta che vi si celebra e ritualizza, quella tra le forze celesti e infere, di cui la reiterazione ludica è l’esatta riproduzione. La tavola da gioco è ad esempio presente in quella particolare genesi nordica che è la Vòluspà, dove la metafora cosmologica è chiaramente leggibile: il possesso della tavola assicurava agli dei il mantenimento dell’età dell’oro, mentre per converso fu proprio la sua perdita a causare l’interruzione di quella mitica era di pienezza.
Nella saga si ha il ripetersi, per l’appunto attraverso la ricreazione fatta col gioco da tavola, della guerra primordiale tra Asi e Vani, in cui la lotta per il raggiungimento di un nuovo ordine iniziale raggiunge tutta la sua drammaticità. Allo stesso modo, anche nella produzione letteraria legata al ciclo arturiano si trovano riferimenti estremamente rivelatori. La Riemschneider menziona l’episodio del « sogno di Rhonabwy », nel quale si svolge una partita tra Artù e Owein, per effetto della quale ad ogni mossa corrisponde un evento uguale nella realtà, in quella guerra tra gli scudieri di Artù e i corvi di Owein che propone ancora una volta la prova eterna tra bene e male, tra il regno fausto del sovrano e quello intero legato alla figura del corvo, da sempre simbolo della regione dei morti.
Il gioco con la tavola si presenta dunque come un momento di contatto tra l’uomo e il destino ed esprime valori del tutto estranei a qualsivoglia idea di intrattenimento o passatempo. Procedimento divinatorio, comprensivo di regole cui attenersi con scrupolo, il gioco antico è in realtà un rito, attraverso la cui corretta esecuzione è possibile interpretare i segni del futuro e del fato: ad esso presiedono i dadi, anch’essi caricati di una simbologia ulteriore, che nell’antichità arcaica attribuiva loro anche la funzione di doni sacrificali (i cosiddetti astragali). Il loro rotolare non era affatto un frutto del capriccio casuale, ma l’espressione di un volere, tanto che al santuario epirota di Dodona — il più antico della Grecia e già in funzione in periodo pre-ellenico — c’era un oracolo che si esprimeva col getto del dado. Questo tipo di pratica divinatoria che, ricorda la Riemschneider, ebbe varianti ancora in epoca medievale, ad esempio con le carte da gioco utilizzate come strumenti maritici, era conosciuta in area germanica con la tipologia runica. Assicelle di legno incise con caratteri runici, disposte in base a precisi rituali, davano il responso richiesto secondo un procedimento di indistinguibile sovrammissione fra la pratica ludica e quella cultuale.
La proprietà magica insita nelle possibilità combinatorie assicurava al gioco un patronato e una prerogativa divini; gli dei, che volentieri giocano tra loro o con gli uomini, sono padroni di uno strumento che solo ai profani nasconde il suo significato sacro. L’autrice tiene a sottolineare la serietà del gioco presso i popoli antichi: « Noi ora conosciamo il gioco d’azzardo tanto nel culto quanto nel mito; un tempo, però, era una prerogativa degli dei o del re, loro rappresentante in terra. NeIl’epos indiano sono gli dei Schiwa e Pàrvàti che giocano fra loro, e il loro gioco rappresenta e segna gli eventi del mondo. Ma anche presso i Germani vi è ancora una totale consapevolezza del carattere rituale del gioco. Tacito esprime la propria meraviglia nel constatare che i Germani, solitamente buoni bevitori, giocavano solo in condizioni di sobrietà, ritenendo il gioco “una questione seria, e potremmo dire fortemente radicata nel culto”. La fortuna del giocatore non è legata, per loro, al capriccio della sorte, ma è piuttosto espressione del volere degli dei ». Al giorno d’oggi, ogni memoria di questi legami occulti tra gioco e divino sembrerebbe perduta; forse soltanto i bambini, per la serietà e l’impegno che ci mettono, per la loro intolleranza nei confronti di chi non conosce o non rispetta le regole, parrebbero sospettare che dietro i loro giochi (specie quelli in via di sparizione, che facevano anche i nostri nonni) si nasconda qualcosa di vero, qualcosa di più ricco che non la semplice meccanica dei movimenti.
E certo con questo spirito che la Riemschneider si pone questo suggestivo quesito: « Cosa dobbiamo dire quando constatiamo che i nostri giochi infantili al salterello o con le palline corrispondono esattamente alle suddivisione delle tavole da gioco trovate in tombe del terzo millennio a.C.? ». I miti, le tradizioni, i rituali a cui, direttamente o di passata, si riferisce l’autrice sono innumerevoli, appartengono alle più varie culture, e la loro complessità ha potuto essere agevolmente ridotta nel breve volgere di questo agile testo solo in virtù della grande capacità di sintesi dell’autrice, del resto già conosciuta dal lettore italiano per i precedenti studi su Miti pagani e miti cristiani (Rusconi) e La religione dei Celti (Il Falco).
Sono di grande fascino, ad esempio, le correlazioni svolte dall’autrice a proposito del nodo e dell’incatenamento: divinità incatenate, come il greco Urano, o irretite, come il germanico Loki o l’indiano Varuna, esprimono il valore trascendente che è implicato nel concetto di legame e di nodo rituale, valore magico di una potenza che intreccia i destini umani. Ma la rete rimanda all’arte divinatoria della scacchiera (i cui pezzi, vincolati alle regole delle mosse, paiono anch’essi irretiti dal destino), e questa all’edificio aperto sui quattro lati innalzato da Loki, simbolo di completezza visuale, così come i tabernacoli degli àuguri e come i crocicchi, che si avviano in tutte le direzioni e sui quali avvenivano i convegni stregonici, anch’essi segno di una continuità tra evento terreno e disegno destinale.
Questo è solo un esempio di come partendo da un particolare si possa giungere a mettere in rapporto tra di loro momenti diversi e lontani della nostra cultura più antica, qualora si sappia scavare l’apparenza per penetrare nel profondo dei significati più veri. E proprio il gioco nasconde questa partita interminabile tra l’uomo e il suo destino; ricordate la famosa scena della partita a scacchi con la morte nel film di Bergman Il settimo sigillo? Nulla di più serio. Gioco e cultura sono due momenti indisgiungibili della esperienza umana, e perfino il videogame contemporaneo ripete a suo modo l’antica tipologia della prova, del superamento della condizione normale per giungere in un luogo di più compiuta realizzazione.
Nel gioco c’è la confessione umana dei propri limiti, il riconoscimento che la regola delimita i nostri stessi orizzonti, dai quali non si esce se non rovesciando la scacchiera e interrompendo la partita:
«Dal cerchio magico del gioco «, ha scritto Huizinga in Homo ludens, « l’intelletto umano può liberarsi soltanto drizzando lo sguardo al Sommo Bene ». oppure, possiamo aggiungere, precipitando nella rovina, così come accade a Odino, che perde il potere e subisce l’ira del lupo Fennir nel momento in cui si infrange il vincolo del nodo magico.
Luca L. Rimbotti

Diorama Letterario, nr. 150, luglio-agosto 1991, pag. 30-32

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