domenica 8 marzo 2009

Il poeta e gli antichi dèi

Walter Friedrich Otto
Il poeta e gli antichi dèi
Guida, Napoli 1991, pagg. 153.

Walter Friedrich Otto appartiene a quella vasta comunità di intellettuali di alto livello (i Ritter, gli Hartmann, i Gehlen, i Wiegand, i Gadamer, per non citare che alcuni fra i noti, tralasciando i celebri) che ad un certo punto della loro vita che coincideva con il fatale 1933, posti di fronte all’alternativa tra esilio e ‘resistenza interna”, optarono per una via diversa, quella che portava ad un organico inserimento del loro sforzo culturale all’interno del processo rivoluzionario messo in moto dal successo nazionalsocialista. Si trattò in effetti di una numerosa società di eruditi e letterati, di ambiente ora accademico ora privato (pensiamo in questo caso a Ina Seidel, la maggiore narratrice tedesca degli anni Venti-Quaranta, oggi completamente dimenticata), il cui peso intellettuale in relazione alla Germania del tempo viene sovente passato sotto silenzio: gli si preferiscono i casi eccellenti di incompatibilità col regime, più facilmente inseribili nel Leitmotiv reso celebre dal binomio cultura/pistola.
Tutti coloro che non abbandonarono il loro paese e non vollero alimentare alcuna dissidenza, ma anzi trovarono più di un punto di contatto col tentativo di erigere la comunità futura sulla “eredità incorruttibile” del passato, ebbero in comune la convinzione che soltanto la tradizione, rianimata e rinvigorita di nuovi significati, avrebbe potuto condurre ad una realtà ancora fertile di grandi creazioni dello spirito. Non si pensava tanto a una nuova letteratura, quanto
a una nuova civiltà, e il contesto politico-culturale dell’epoca, improntato alla valorizzazione del» mito originario », fu il terreno su cui potenti individualità come quella di Otto disegnarono il loro appassionato progetto di rinnovamento.
Come già ne Gli dèi della Grecia (del 1929) e poi in Dioniso (del 1933), ne Il poeta e gli antichi dèi (del 1942) ci si trova di fronte allo svolgimento di un teorema fondamentale: la riacquisizione dell’origine, il recupero di un sentimento del divino che sia fonte di attiva promozione umana ed infine la proposta di una più alta e quasi metafisica organicità comunitaria. Il mito unificante a cui la Grecia classica abbeverò la propria immaginazione eroica sottintendeva il dominio degli opposti, tra i quali la dialettica tra uomo e dio, costante tormento dell’ingegno ellenico, assurgeva al ruolo supremo di confronto con l’infinito. Otto scava alle origini dell’idea di civiltà, vuole arrivare al limite estremo del sogno arcaico di grandezza, convinto di potere da esso estrarre il segreto di ogni compimento, cioè l’unità di umano e divino, avvolti dalla tragica e sacrale presenza della natura creatrice.
Il linguaggio e l’ispirazione di Otto sono poetici, ed ai poeti egli si rivolge per riaccostarsi al mondo greco del divino. Goethe e Hòlderlin, tedeschi e greci nel fondo dell’anima, sono gli universi lirici a cui guarda, ansioso di riannodare il filo misterioso che lega il genio al dio e all’eroismo. La sua intuizione è straordinaria: la vera realizzazione dell’intimità tra uomo e dio è data dal culto e dal mito originari, arcaici, risalenti ai tempi in cui la dimensione comunitaria della religione instaurava il perfetto equilibrio tra diversità ed unità. In seguito, nel passaggio dal panteismo primigenio alla personalizzazione delle divinità olimpiche, si verificò la caduta nel tragico compimento del destino individuale, esemplificata da Otto mediante la figura di Empedocle, il filosofo che — alla maniera che sarà anche di Cristo — soggettivizzò la religiosità fino a farne una questione espiatoria e purificatrice. La poesia moderna appare dunque allo studioso tedesco come il solo tentativo possibile di recuperare, dal lato dell’ispirazione geniale, ciò che è andato perduto col procedere delle epoche, sempre più intellettualizzate e sempre meno spontanee.
Il politeismo goethiano era vera religione naturale, sensibilità finissima per il valore trascendente di ogni atto della creazione: « Il poeta », scrive Otto, ~riconosce nei pagani devoti i suoi veri fratelli. La dea della natura parla anche a lui «, così da suggerirgli un significato più profondo e più vero per ogni aspetto della vita: Le forme naturali dell’esistere e dell’accadere mondano si presentavano come essenze eterne. Il politeismo del poeta è questo «. Ma, al tempo stesso, la religiosità di Goethe si presenta coi contorni tipici di quella arcaica devozione che sapeva disciplinarsi come parte di un tutto, cosciente dei limiti che sono dati all’uomo. Otto considera paralleli, a questo proposito, l’esortazione delfica ~‘ conosci te stesso » e quella goethiana a mantenere inviolati i confini dell’umanità, che interpreta come una matura consapevolezza dell’ordine, vissuta con l’intima religiosità del rispetto per la natura: L’uomo è rimasto solo da quando la natura si è svuotata degli dèi e il divino, un tempo così intimo ad ogni moto del suo essere, tanto fisico che spirituale, al punto che egli vi poteva dimenticare se stesso, è fuggito nell’inafferrabile ~‘.
Il mito dell’origine, del puro fluire di ogni umana energia nel solco del destino paternamente tracciato dal dio, trova però in Hòlderlin il suo vertice interpretativo, imperniato sull’alternativa sempre irrisolta tra l’organico, ordinato e finito e quindi umano, e ciò che il poeta chiama « aorgico », l’inorganico nel senso di illimitato e quindi divino. Nel poeta che ritesse la trama originaria, che con insuperato lirismo si fa contemporaneo della civiltà antica, si attua di nuovo la “connessione armonica” tra uomo e natura, che una volta era la radice stessa della religione: un’emozione semplice, immediata, che sgorga dal cuore e non da qualche libro o da qualche affabulazione allegorica più o meno apocrifa. In Hòlderlin, Otto riconosce la tradizione allo stato puro: Sole, terra ed elementi, vita e morte, storia e destino gli parlavano ancora con la lingua delle essenze originarie, come se egli fosse realmente della stirpe di quei popoli devoti, che non avevano ancora soffocato questa lingua nel rumore della dottrina della salvezza o dell’Illuminismo e delle macchine ». In quel poeta solitario, sordo fino alla follia di fronte alle sirene di un’epoca già imbarbarita, Otto vede l’uomo “primitivo”, in pace con sé e col cosmo, artefice del proprio destino, consapevole che « a tutti gli eventi decisivi della sua esistenza prendevano parte i consanguinei e i compagni, e i morti non meno dei vivi «.
Guardare al passato, al più lontano passato, non è per Otto una fuga dal presente ma piuttosto un’immersione nel futuro, tutto da costruire secondo le eterne categorie della vita, date una volta per tutte: non c’è traccia, in lui, di romanticismo sognatore. Il passato lucente in cui, come Hòlderlin, si specchia è al contrario energia e voglia di vivere: « Sono state le generazioni più forti e audaci quelle che si sono rifatte al passato più remoto col sentimento genuino della vita, consapevoli che in questo ritorno non si invecchia ma, al contrario, si ringiovanisce «.
Il linguaggio spesso rapsodico dell’opera non deve trarre in inganno. Nella riflessione di Otto non c’è traccia di compiaciuto estetismo; egli non fa dell’accademia e neppure della semplice cultura. Il suo discorso è ideologico. Il suo rifarsi ad una» nuova amicizia con gli dèi «, a una» nuova giovinezza e armonia con la natura » è un messaggio che vale come » eredità per tutto il popolo ». Dietro queste parole si agita un assillo antico della cultura tedesca, quello di fare della Germania la nuova Ellade. Da Hòlderin a Nietzsche fino a Bàumler, questo assillo crebbe come un onda, facendosi in un primo momento lirica, poi profezia, infine ideologia.
Luca L. Rimbotti

Diorama letterario, n. 150, luglio-agosto 1991, pagine 36-37

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